Un’alleanza che sostiene: medico e paziente, insieme nel percorso

Lunedi 30 June 2025

Nel momento in cui una diagnosi cambia la vita, la relazione tra medico e paziente assume un ruolo centrale. Non si tratta solo di comunicare un referto, ma di accompagnare la persona in un percorso di comprensione, accoglienza e cura. 

Quando la notizia è complessa o inattesa, serve competenza clinica, ma anche empatia, ascolto e attenzione ai bisogni emotivi del paziente e dei suoi familiari. L’alleanza tra medico e paziente può diventare un punto di forza decisivo lungo tutto il percorso terapeutico. 

Ne abbiamo parlato con la Dott.ssa Maria Paola Scarsi, medico radiologo che collabora con lo Studio Radiologico Centocannoni di Alessandria, lo Studio Radiologico Newima di Acqui Terme e Il Centro di Campo Ligure.

Cosa succede dopo un esame? 

Una volta effettuato l’esame, l’infermiere o il personale di segreteria comunica al paziente la data prevista per il ritiro del referto. Esso è disponibile in formato cartaceo, da ritirare personalmente allo sportello dedicato dello studio, oppure, su richiesta, in formato digitale.

C’è però un aspetto delicato da considerare: non è raro che il paziente si ritrovi da solo ad aprire e leggere il referto. In presenza di patologie complesse, ciò può significare trovarsi improvvisamente di fronte a una diagnosi molto grave, senza la possibilità di un confronto immediato con il medico che ha redatto il documento.

È da questa consapevolezza che nasce l’esigenza di ripensare il modo in cui comunichiamo le diagnosi, per evitare che un paziente possa ricevere da solo un’informazione che può rivelarsi difficile da affrontare.

Come viene comunicata una diagnosi delicata? 

La comunicazione di una diagnosi deve avvenire con tatto, ma anche con efficacia: è essenziale che il messaggio arrivi in modo chiaro al paziente, soprattutto quando si tratta della prima diagnosi. Pensiamo, ad esempio, a un paziente che si sottopone a un esame convinto di avere un problema alla colonna cervicale e si ritrova invece di fronte a una diagnosi di tumore all’apice polmonare. Una notizia del genere coglie impreparati e può essere faticosa da elaborare.

L’ideale sarebbe poter comunicare la diagnosi di persona, nello studio del medico, in un contesto adeguato che faccia sentire il paziente ‒ e gli eventuali accompagnatori ‒ accolti, ascoltati, in un luogo sicuro. Un ambiente dove la comunicazione avvenga con empatia e competenza, senza eccessi: né troppo ottimisti, né troppo bruschi.

Esistono protocolli strutturati per la comunicazione di diagnosi complesse, ben conosciuti e utilizzati dagli specialisti. 

È importante saper comunicare in modo chiaro e comprensibile, evitando sia il linguaggio troppo tecnico, sia toni eccessivamente allarmanti. Al tempo stesso, però, la chiarezza è imprescindibile: il paziente deve comprendere appieno la situazione, per poter affrontare gli eventuali approfondimenti diagnostici e, soprattutto, per avviare il percorso terapeutico.

Quando la comunicazione di persona non è possibile ‒ magari perché il paziente proviene da lontano e preferisce ricevere il referto in formato digitale ‒ cerco sempre, se possibile, di precedere l’invio con una telefonata. Chiedo se può raggiungermi in studio o collegarsi in videochiamata, per poter parlare direttamente, porre alcune domande e spiegare in modo comprensibile il significato della diagnosi.

Credo profondamente nell’importanza di “metterci la faccia”, anche solo virtualmente. 

Il valore della relazione medico-paziente

La relazione medico-paziente rappresenta l’aspetto più importante in ogni fase del percorso di cura. È sempre fondamentale, ma lo diventa ancora di più quando si tratta di comunicare una diagnosi negativa. La letteratura scientifica lo conferma: un paziente che riceve una diagnosi in modo adeguato sarà più disposto a proseguire con ulteriori accertamenti diagnostici e ad affrontare percorsi terapeutici, anche molto impegnativi, con maggiore fiducia e determinazione.

Ma come si costruisce una buona relazione medico-paziente? Innanzitutto, parlando in modo chiaro, rispettando i tempi di elaborazione del paziente. Di fronte a una notizia negativa, la reazione più comune è un iniziale stato di shock. Si tratta di una risposta psicologica automatica che, almeno temporaneamente, limita la capacità di comprendere pienamente quanto viene comunicato. Spesso subentra la negazione, e serve del tempo prima che l’informazione raggiunga pienamente la coscienza.

Per instaurare un rapporto di fiducia, inoltre, è importante non mostrarsi infallibili. Non dobbiamo alimentare l’idea che, in quanto medici, siamo esenti da errori. Può accadere che accertamenti successivi portino a rivedere la diagnosi iniziale: comunicarlo con onestà contribuisce a costruire una relazione più umana e paritaria.

Anche il contesto in cui avviene la comunicazione ha il suo peso. Non è ideale che il medico rimanga dietro una scrivania e il paziente, insieme ad eventuali familiari o accompagnatori, sia seduto di fronte. È preferibile creare un ambiente più paritario, che favorisca il contatto visivo e la vicinanza, magari mostrando anche le immagini diagnostiche, se disponibili.

Infine, è fondamentale saper ascoltare e comprendere cosa il paziente già sa e cosa desidera sapere. Alcuni, ad esempio, preferiscono non conoscere la prognosi, ma solo lo stato attuale della malattia. Altri, al contrario, vogliono avere un quadro completo. Rispettare queste diverse esigenze è parte integrante della relazione di cura.

Reazioni emotive immediate dopo il referto: cosa è normale provare 

Come accennato, la prima reazione a una diagnosi negativa è spesso lo shock. È una risposta comune, che colpisce tutti, e viene definita freezing: restiamo come congelati, tanto che il nostro cervello non riesce inizialmente a elaborare pienamente la notizia ricevuta. Serve del tempo affinché la coscienza possa accettare e comprendere davvero l’informazione.

Quando il paziente è accompagnato, è importante coinvolgere anche chi è con lui. Gli accompagnatori, non essendo direttamente coinvolti sul piano emotivo, spesso riescono a cogliere e comprendere le informazioni più rapidamente del paziente stesso.

È fondamentale rassicurare il paziente, ma senza esagerare e senza offrire false speranze: se il paziente dovesse percepire mancanza di sincerità, la fiducia nel medico rischierebbe di venire meno. Allo stesso tempo, è importante essere chiari e cercare di comprendere chi abbiamo di fronte, perché ogni persona reagisce in modo diverso a una notizia difficile.

Ci sono pazienti che arrivano all’esame già con un sospetto, basato su sintomi o esami clinici precedenti, e sono quindi più pronti ad affrontare una diagnosi negativa. Altri, invece, non si aspettano nulla di grave e per loro l’impatto emotivo sarà molto diverso.

Il nostro compito è riconoscere lo stato emotivo del paziente in quel momento e adattare il linguaggio e l’approccio alla persona che abbiamo davanti.

A chi rivolgersi dopo la diagnosi?

Dopo la comunicazione di una diagnosi, soprattutto quando si tratta di una situazione complessa o delicata, è importante sapere a chi rivolgersi ed è fondamentale da parte nostra mettere il paziente in condizione di proseguire il proprio percorso in modo consapevole. Possiamo, ad esempio, dire: “Se lei è d’accordo, posso mettermi in contatto con il suo medico curante o con il clinico che l’ha inviata, così potrà poi parlarne con lui, sapendo che è già al corrente della situazione”.

Questo passaggio è importante anche perché può accadere, e accade spesso, che il paziente lasci lo studio senza aver davvero compreso ciò che gli è stato comunicato oppure che attivi un meccanismo di negazione, una reazione psicologica del tutto naturale nelle prime fasi.

In queste situazioni, il medico curante può giocare un ruolo fondamentale nel chiarire meglio la situazione, anche coinvolgendo i familiari se necessario. Questo consente di affrontare la diagnosi in modo più sereno, evitando ritardi negli esami successivi e, soprattutto, nell’avvio della terapia.

La figura dello psicologo è altrettanto importante e, avendo una formazione anche in psicologia, mi capita talvolta di poter affrontare anche questo aspetto. In alcuni casi, possono emergere reazioni forti, per esempio di rabbia o rifiuto ed è fondamentale valutare con attenzione l’opportunità di proporre un supporto psicologico, affinché il paziente riceva un accompagnamento adeguato, rispettoso e centrato sui suoi bisogni.

Sempre con il dovuto rispetto e la giusta sensibilità, è bene parlarne con il medico curante o con i familiari, quando presenti, per far comprendere quanto sia importante che il paziente prenda coscienza della propria condizione e riceva l’aiuto necessario per affrontarla.

Il ruolo della famiglia e della rete sociale

I caregiver hanno un ruolo fondamentale. Sono importanti fin dal momento della prima diagnosi, ma diventano ancora più preziosi quando il paziente entra in un percorso di follow-up. A volte il paziente si presenta da solo ai controlli, magari perché preferisce non condividere con altri un momento così delicato. Tuttavia, la presenza di un caregiver può rappresentare un supporto fondamentale, soprattutto nelle fasi più complesse del percorso di cura.

La presenza di un familiare o di un caregiver è preziosa, perché spesso sono proprio loro i primi a cogliere la gravità della situazione e a supportare il paziente nell’accettarla. Naturalmente, ogni caso è diverso: se l’accompagnatore reagisce con grande emotività ‒ ad esempio si dispera prima ancora del paziente ‒ può essere utile, con delicatezza, chiedergli di attendere fuori per qualche momento, in modo da gestire la comunicazione in modo più efficace e centrato sul paziente.

Personalmente, quando entra un paziente accompagnato, saluto sempre prima lui e solo dopo l’accompagnatore. Presto molta attenzione a questo gesto, perché serve a chiarire che al centro della comunicazione c’è il paziente. Lo faccio accomodare vicino a me, mentre l’accompagnatore prende posto un po’ più in disparte: è un modo discreto per ribadire che il protagonista della relazione è il paziente, pur riconoscendo il valore del supporto di chi lo affianca.

Questo accorgimento diventa ancora più importante nei casi in cui il paziente non conosca bene la nostra lingua. In queste situazioni, il supporto di un familiare, di un amico o di un mediatore culturale diventa essenziale per garantire una comunicazione chiara, rispettosa e comprensibile.

Un percorso che continua: dopo la comunicazione, cosa succede

A mio avviso, è fondamentale far sentire al paziente la nostra presenza. Non sempre servono grandi gesti: a volte è sufficiente che sappia di poter contare su di noi, che non è solo. Questo significa offrirgli la possibilità di contattarci, ad esempio telefonicamente, e rassicurarlo sul fatto che, nei controlli successivi, saremo disponibili, se lo desidera, a seguire l’evoluzione della sua patologia e a monitorare la risposta alla terapia.

Se operiamo in rete con altri specialisti o clinici, possiamo proporci come punto di riferimento, soprattutto nella fase iniziale, facendo da tramite tra il paziente e il clinico. Questo approccio è particolarmente utile quando il paziente non ha compreso appieno alcune informazioni. Spesso dico: “Se ha bisogno, mi chiami o torni da me. Possiamo cercare insieme di fare chiarezza”. E i pazienti, più che riconoscenti, sono profondamente grati di questa disponibilità. Perché la solitudine, che è una condizione sempre difficile, in momenti come questi può diventare un vero ostacolo, al punto da spingere il paziente a trascurarsi.

Un’ultima riflessione. Esiste una forma di comunicazione ancora più delicata: quella che riguarda le diagnosi pediatriche. In questi casi, il dialogo è rivolto ai genitori. Ma si tratta di un tema importante e complesso, che merita un approfondimento a parte.

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