Piedi piatti bambini: dalla diagnosi alla cura

Lunedi 25 Agosto 2025

I piedi piatti nei bambini sono una condizione molto comune che, nella maggior parte dei casi, non rappresenta un problema patologico. Nei primi anni di vita, infatti, l’assenza dell’arco plantare è fisiologica e tende a correggersi spontaneamente con la crescita.

In alcune situazioni, però, può essere utile una valutazione specialistica per escludere forme più strutturate o dolorose, che potrebbero interferire con la deambulazione o con l’attività sportiva.

Genitori e insegnanti si interrogano spesso su come riconoscere i piedi piatti, quali calzature scegliere, quando ricorrere ai plantari o, nei casi più complessi, se sia necessario un intervento chirurgico. La letteratura scientifica, oggi, fornisce indicazioni chiare e aggiornate, ma restano ancora molti falsi miti da sfatare.

Ne abbiamo parlato con il Dott. Silvio Boero, Ortopedico Pediatrico che collabora con il Laboratorio Albaro di Genova e con il Centro Priamar di Savona.

 

Come si presenta il piede piatto nei bambini?

Il piede piatto nei bambini si manifesta con l’assenza dell’arco plantare longitudinale.

Se confrontiamo il piede di un bambino con quello di un adulto, noteremo che, nella norma, in quest’ultimo, la parte interna del piede non tocca il suolo. Nel piede piatto, invece, questa zona è completamente — o quasi completamente — a contatto con il terreno.

Esistono varie gradazioni di piede piatto: primo, secondo, terzo e quarto grado.

Il primo grado è fisiologico, tutto dipende dalla percentuale di istmo, cioè la parte laterale del piede che appoggia a terra, rispetto a tutta la larghezza della pianta. Nel piede piatto di quarto grado, la parte interna del piede presenta una convessità: non è nemmeno dritta, ma piegata verso l’interno.

Dobbiamo però ricordare che l’arco plantare è fisiologicamente assente nel bambino fino ai tre anni di età. Quindi, un bambino di due anni ha normalmente il piede piatto, anche perché frequentemente è ancora presente il cuscinetto adiposo plantare, che nasconde l’arco longitudinale.

Esiste poi un’altra condizione, che può essere assimilabile al piede piatto anche se, in realtà, è completamente diversa: il piede cavo pronato. In questo caso, l’appoggio del piede avviene solo a livello del tallone e della parte anteriore, con un calcagno molto ruotato verso l’esterno. Non si tratta di un piede piatto, ma del suo esatto contrario: un piede cavo. Tuttavia, da un punto di vista funzionale, questa pronazione, o valgismo calcaneale, può provocare gli stessi sintomi del piede piatto. Questo accade non nei bambini piccoli, ma in quelli più grandi, tra i nove e i dodici anni.

È proprio in questa fascia d’età che si valuta se intervenire chirurgicamente oppure no, a seconda della presenza di sintomatologia. I sintomi compaiono quando il bambino fa attività sportiva o anche solo una passeggiata di qualche centinaio di metri, e può lamentare dolori sotto la pianta del piede o alle gambe, più raramente alle ginocchia.

 

Tipi di piede piatto

Entrando nel dettaglio, possiamo distinguere diverse forme di piede piatto. La più comune è quella idiopatica o familiare, che tende a manifestarsi in più membri della stessa famiglia.

Esistono anche i piedi piatti congeniti, che sono invece legati a vere e proprie malformazioni del piede, come la fusione di alcune ossa. In questi casi, le ossa che normalmente dovrebbero articolarsi tra loro risultano fuse, e questo blocca il retropiede in pronazione. Il risultato è un piede piatto rigido, spesso anche doloroso, perché non lavora in modo funzionalmente corretto.

Un aspetto molto importante da ricordare è che plantari e calzature ortopediche non servono a modificare la struttura del piede piatto. È un mito che va assolutamente sfatato. Se un bambino avverte dolore al piede, oppure se i genitori desiderano che cammini in modo più “corretto”, si può ricorrere a un plantare. Ma bisogna essere consapevoli che quel plantare non avrà un effetto correttivo sul piede piatto.

A confermarlo è la Cochrane Review del 2022 che, nel caso del piede piatto idiopatico familiare, lo ha dimostrato chiaramente.

 

Quali esami sono utili per diagnosticare il piede piatto nei bambini?

Il primo passo è sempre una valutazione clinica completa: bisogna raccogliere l’anamnesi familiare, quindi sapere se ci sono altri casi di piedi piatti in famiglia, e verificare se il bambino lamenta dolore.

Durante la visita, inoltre, è utile eseguire un esame baropodoscopico, che consente di analizzare l’appoggio plantare. Oggi esistono anche le baropodometrie computerizzate, ma, almeno nelle prime fasi, per un piede piatto idiopatico sono sufficienti l’esame clinico e una baropodometria statica.

Se invece si inizia a prendere in considerazione un intervento chirurgico correttivo, è necessario eseguire almeno una radiografia per confermare la diagnosi e verificare che non ci siano sospetti di sinostosi, cioè la fusione anomala di alcune ossa del piede.

Nel caso in cui ci sia questo sospetto, bisogna passare a un esame di secondo livello: una risonanza magnetica oppure una TAC. Nei bambini è preferibile la risonanza magnetica, perché non comporta esposizione a radiazioni ionizzanti.

 

Ci sono dei rimedi per i piedi piatti nei bambini?

In senso stretto, non esistono rimedi che correggano incruentemente il piede piatto. Se si desidera correggerlo, è necessario intervenire in modo mirato; altrimenti, la condizione rimane invariata. È chiaro però che alcune attenzioni possono aiutare il bambino.

Per esempio, si possono utilizzare calzature fisiologiche, cioè scarpe con una buona struttura posteriore, a livello del calcagno, ma flessibili nella parte anteriore. Non devono essere scarpe particolarmente rigide, perché questo non aiuta la muscolatura e non stimola lo sviluppo dei muscoli cosiddetti “cavizzanti”, cioè quelli che contribuiscono a formare l’arco plantare.

Si possono anche eseguire esercizi di fisioterapia per cercare di migliorare l’arco.

Un altro suggerimento è quello di far camminare il più possibile il bambino a piedi nudi su terreni irregolari, per esempio sulla sabbia o sull’erba, perché il pavimento di casa – che è liscio e rigido – non stimola quasi per nulla la muscolatura cavizzante.

Una teoria che nel tempo è stata smentita riguarda il sovrappeso. È vero che i bambini in sovrappeso presentano spesso piedi piatti, ma non è stato dimostrato che il sovrappeso abbia un impatto negativo sulla formazione dell’arco plantare.

Infine, una delle osservazioni che spesso riportano i genitori è: “Il mio bambino ha le ginocchia a X e i piedi piatti”. È vero che le due condizioni possono frequentemente coesistere, ma non sono legate tra loro. Ci sono bambini che presentano unicamente ginocchia valghe e altri con piedi piatti e ginocchia perfettamente allineate. Può esserci un’associazione, ma non c’è una relazione diretta e costante.

 

Quali scarpe sono adatte per i piedi piatti nei bambini?

Non esistono scarpe “miracolose”. È chiaro però che una buona calzatura, ad esempio un sandalo estivo che abbia già una forma adeguata, può aiutare. In particolare, è importante che ci sia una buona conca talloniera, perché il primum movens dei problemi del piede piatto è il calcagno valgo, cioè il calcagno che ruota verso l’esterno.
Se la calzatura ha una conca che lo mantiene un po’ più in asse, sicuramente è meglio.

Lo stesso discorso vale per le calzature autunnali o invernali, cioè quelle chiuse: anche in quel caso, la parte posteriore dove alloggia il calcagno deve essere solida, per offrire un buon sostegno al piede.

Si può utilizzare un plantare ortopedico per i piedi piatti nei bambini?

Nel caso del piede piatto idiopatico del bambino o dell’adolescente, l’utilizzo del plantare non modifica la struttura del piede.

Detto questo, in presenza di sintomi come dolore o fastidio, o se il bambino ha altre problematiche – come un piede piatto neurologico – allora il plantare può avere un senso funzionale, cioè può aiutare a migliorare l’appoggio e a ridurre il disagio. Ma è un uso di tipo compensativo, non correttivo.

Intervento piedi piatti bambini: in cosa consiste e quando farlo

L'intervento che si esegue, ormai da circa 30 anni, è l’artrorisi sottoastragalica, che consente di riportare le due ossa posteriori del piede, ovvero il calcagno e l’astragalo, nella loro posizione fisiologica.

Esistono varie tecniche per eseguire questo tipo di intervento.

Le metodiche principali sono tre:

inserimento della vite, dal basso verso l’alto, nell’astragalo, osso che si articola con la tibia;

inserimento della vite nel calcagno, dall’alto verso il basso;

inserimento della vite direttamente nel seno del tarso, senza penetrare l’osso, ma posizionandola all’interno dello spazio.
 

Sono stati condotti studi scientifici che hanno paragonato le diverse tecniche e si è visto che, in termini di risultati, sono sovrapponibili. Le prime due tecniche vengono dette esosenotarsoiche, la terza endosenotarsica.

 

Parliamo più in generale di ortopedia pediatrica. Lei è attivo anche in progetti di volontariato in Africa: può raccontarci come si svolge il suo lavoro durante queste esperienze e quali elementi ritiene più importante condividere?

Ho iniziato a recarmi in Kenya nel 1985 e quest'anno ho celebrato 40 anni di attività in Africa. Un collega ha stimato che, nel complesso, vi ho trascorso circa tre anni della mia vita.

Fin dall'inizio ho compreso quanto sia fondamentale garantire continuità negli interventi: non è sufficiente effettuare qualche operazione e poi ripartire. Senza un impegno costante, si rischia di arrecare più danni che benefici.

Sono presidente dell'Associazione Silvano Mastragostino G.O.A. – Genova Ortopedia per l'Africa – Onlus, fondata nel 1996 in memoria del Professor Silvano Mastragostino. Ogni anno organizziamo due missioni in Kenya.

Il nostro modello di intervento è strutturato e consolidato: a settembre, una prima squadra visita i bambini segnalati dai terapisti locali e dalle suore. Nei mesi di gennaio e febbraio, una seconda équipe chirurgica torna per operare i piccoli pazienti. Dopo gli interventi, la riabilitazione prosegue grazie al lavoro degli infermieri e fisioterapisti locali e, quando necessario, con il supporto del personale ospedaliero.

Nel corso degli anni abbiamo raggiunto un livello assistenziale paragonabile a quello europeo: interventi che un tempo sembravano irrealizzabili sono oggi parte della nostra pratica. Questo risultato è stato possibile grazie a due fattori chiave: la continuità e la capacità di adattamento, evitando di replicare in Africa procedure ad alta tecnologia non sostenibili in contesti con risorse limitate.

Nel frattempo, il Kenya ha compiuto enormi progressi: in questi 40 anni la qualità del sistema sanitario locale è notevolmente migliorata.

Recentemente ho visitato anche il Madagascar, uno dei Paesi più poveri del continente. Qui molte persone vivono con meno di un dollaro al giorno e l'assistenza sanitaria è pressoché assente: chi è povero e ha un problema di salute spesso non riceve alcuna cura.

 

 

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